La risoluzione del contratto, alla luce delle nuove pronunce in materia di risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

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A mezzo dell’art. 1453 c.c., rubricato “risolubilità del contratto per inadempimento”, il nostro ordinamento giuridico chiarisce che nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

Prosegue, ancora, ai commi secondo e terzo, specificando che la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data della domanda di risoluzione, l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.

La disposizione appena riportata introduce la disciplina della risoluzione giudiziale del contratto, da contrapporre alla variegata tematica della risoluzione stragiudiziale. La risoluzione giudiziale viene invocata dalla parte contrattuale in alternativa all’esperimento dell’azione di adempimento, qualora quest’ultima non sia più in grado di soddisfare l’interesse del creditore, parte contrattuale al cui soddisfacimento mirava la prestazione. Il rimedio risolutorio, infatti, serve a soddisfare la parte che perde interesse, ad esempio, per una prestazione offerta in ritardo.

Tipico caso di scuola è la consegna, il giorno e l’ora successiva al matrimonio, dell’abito da sposa. La questione non è di poco momento, poiché il rapporto tra azione di risoluzione ed azione di adempimento è stato oggetto di annosi dibattiti giurisprudenziali, risolti con la possibilità per gli attori/ricorrenti in giudizio porre le due azioni in condizione di subordinazione all’interno degli atti giudiziali, ferma restando la possibilità di riproposizione dell’azione di adempimento, secondo l’orientamento maggiormente accolto, in ipotesi di definizione del giudizio con domanda di risoluzione per ragioni processuali di rito o in ipotesi di sua estinzione.

Optato in via definitiva per l’azione di risoluzione giudiziale ed esclusa l’azione di adempimento, occorre rapportare la stessa ai rimedi stragiudiziali e definire i presupposti applicativi generali ai sensi degli artt. 1453, 1455, 1458, 1459, 1461, 1460 c.c.

Volendo cominciare proprio da questi ultimi, occorre chiarire che affinché si possa risolvere proficuamente un contratto, senza più attendere l’adempimento della controparte, è necessario che l’inadempimento abbia raggiunto un tale livello di gravità da determinare la risoluzione del rapporto.

Un dato utile è fornito al riguardo dall’art. 1455 c.c., norma cardine nei rapporti tra azione processuali ex art. 1453 c.c. commi primo e secondo cc., a mezzo della quale viene apposto un limite negativo all’effetto processuale demolitorio. Più precisamente, la norma chiarisce che il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra.

La valutazione, pertanto, inerisce alla oggettiva e concreta possibilità di soddisfacimento dell’interesse della parte richiedente la prestazione insita nella causa concreta del contratto.                                  La necessità di soddisfacimento e corretto funzionamento della causa contrattuale giustifica da un lato, la scelta di chiarire ex art. 1459 c.c. (rubrica: risoluzione nel contratto plurilaterale) che nei contratti indicati dall’art. 1420 c.c. l’inadempimento di una delle parti non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, salvo che la prestazione mancata debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale. Dall’altro, chiarisce e spiega, perché ai sensi dell’art. 1461 cc., si sia chiarito che ciascun contraente può sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, se le condizioni patrimoniali sono diventate tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controparte, salvo che sia prestata idonea garanzia.

Lo squilibrio di posizioni contrattuali e, dunque, lo squilibrio causale (che è l’essenza stessa del rimedio risolutorio in esame), qualora si manifesti in forma grave, giustifica altresì altre tipologie di risoluzione del contratto, diverse e speciali rispetto alla disciplina generale delineata dall’art. 1453 cc. dei cui presupposti si è avuto fino ad ora modo di parlare.

Basti pensare all’art. 1457 cc. che consente di risolvere il contratto (sia esso ad esecuzione continuata o periodica, sia esso ad esecuzione differita) qualora la prestazione divenga eccessivamente onerosa o, ancora, all’art. 1463 cc. (rubricato: impossibilità totale), a mente del quale si chiarisce che in ipotesi di impossibilità della prestazione dovuta non si può più chiedere la controprestazione, con conseguente obbligo di restituzione della prestazione che si sia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cc.

Tanto la disciplina generale della risoluzione quanto la disciplina speciale poc’anzi esaminata si contrappongono, vista la loro dimensione processuale, ai rimedi stragiudiziali di risoluzioni del contratto più classici: si pensi alla diffida ad adempiere, al termine essenziale (oggettivo e soggettivo), alla clausola risolutiva espressa o, volendo “allargare le maglie del concetto di rimedio demolitorio”, si pensi ad un rimedio non tanto risolutorio, bensì di autotutela alternativa alla risoluzione giudiziale, consistente nel trattenimento della caparra.

La diffida ex art. 1454 cc. ad adempiere concede normalmente 15 gg. per l’adempimento, pena la risoluzione. Il termine essenziale ex art. 1457 cc., che si definisce oggettivo se dipende dall’attività svolta, soggettivo se dipende dall’interesse del creditore/soggetto richiedente la prestazione principale, concede, invece, un termine di tre giorni per adempiere, pena la demolizione del vincolo contrattuale.

Ai sensi dell’art. 1456 cc., rubricato “clausola risolutiva espressa”, ancora si chiarisce che è ammessa la risoluzione contrattuale in ipotesi di inadempimento non corretto e/o non corrispondente alle modalità contrattuali.

Si tratta, dunque, di una clausola contrattuale capace di produrre, dietro esercizio di una parte contrattuale, il medesimo effetto demolitorio delle altre ipotesi.

Lievemente diversa è, invece, la riscossione della caparra confirmatoria, la quale consente di ottenere il doppio della cifra pattuita a mò di caparra contrattuale al fine di evitare un giudizio ipoteticamente di risoluzione del contratto, il quale, una volta trattenute le somme,  non può più essere intrapreso.

La suindicata ipotesi di autotutela privata si pone dunque “in via alternativa” rispetto al rimedio demolitorio in esame.

Tracciati inizialmente i lineamenti della disciplina generale ed evidenziati i rimedi risolutori stragiudiziali e giudiziali speciali si può concludere con un ritorno alla disciplina generale della risoluzione, esplicitando quali siano gli effetti della risoluzione ex art. 1458 cc.

Ebbene, ai sensi dell’art. 1458 cc., la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratto ad esecuzione continuata o periodica riguardo al quale l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.

La risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.

La retroattività poc’anzi accennata combacia con l’effetto demolitorio retroattivo tipico dell’azione di annullamento, ma produce un diverso effetto sotto il profilo compensativo e di ripristino dello status quo ante.

Infatti, se l’annullamento produce quale conseguenza classica la restituzione dell’indebito oggettivo, la risoluzione giudiziale dà diritto unicamente al risarcimento del danno.

Il suindicato risarcimento segue le regole classiche del diritto civile. Dunque, dimostrato il fondamento (titolo) della propria pretesa, al danneggiato spetta il risarcimento dei danni che sono, ex art. 1223 cc., secondo il nesso di causalità giuridica, diretta conseguenza dell’inadempimento, ricostruito tenendo conto del preliminare nesso di causalità ex art. 40 e 41 cp. sorretto dal correttivo della causalità adeguata. Non basta, tuttavia, affermare che il danneggiato abbia diritto a vedersi risarcito il danno che è diretta conseguenza dell’inadempimento, ma occorre anche selezionare i profili risarcitori che siano imputabili esclusivamente al danneggiante ex art. 1227 cc., al fine di garantire, da un lato, il principio della integralità del ristoro, dall’altro, di evitare di porre in capo al danneggiante anche l’obbligo di risarcire più del dovuto.

Tale principio trova conferma non solamente nel concetto di “compensatio lucri cum damno” oggetto anche di recente interesse in materia di leasing, ma rappresenta un tassello nella ricostruzione del nesso risarcitorio funzionale ad evitare che il risarcimento del danno divenga, da un lato, un danno punitivo atipico, imponendo al danneggiante un peso maggiore del dovuto, dall’altro un modo per deresponsabilizzare il danneggiato, inducendolo a non adoperarsi per evitare di aggravare il danno, con palese violazione del principio di autoresponsabilità.

Le complessive argomentazioni sin qui esposte sia sotto il profilo della disciplina generale della risoluzione del contratto sia sotto il profilo delle prospettive risarcitorie, fungono da substrato per comprendere quali siano, in punto di diritto, le conseguenze in ipotesi di risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore.

Al fine di ben inquadrare la questione giova premettere che ai sensi dell’art. 1571 cc. la “locazione è il contratto col quale una parte (detta locatario) si obbliga a far godere all’altra (definita conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo”.

Ai sensi dell’art. 1591 cc. “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”.

Dal combinato disposto delle due norme discende che, da un lato, il contratto di locazione, in quanto contratto sinallagmatico, è soggetto alla disciplina generale della risoluzione del contratto di cui all’art. 1453 cc., come sopra descritta, dall’altro, presenta dei tratti peculiari nella fase patologica, dettati dalla tipicità del contratto.

La risoluzione anticipata è stata oggetto di una ordinanza interlocutoria del 2023, a mezzo della quale si sono individuate delle linee direttive che muovono dai principi generali espressi in materia di risarcimento del danno.

Al fine di provare a dirimere la questione, inerente alle conseguenze, anche risarcitorie, della risoluzione anticipata della locazione, si sono proposti due orientamenti.

Secondo un primo orientamento, il locatore che abbia ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione a seguito dell’inadempimento di controparte sarebbe legittimata a presentare domanda giudiziale di risarcimento del danno addirittura consistente nella totalità dei canoni concordati fino a che non venga individuato un nuovo conduttore, con ammontare variabile in base alle concrete situazioni fattuali e determinato dal giudice.

Secondo un diverso orientamento, per contro, la risoluzione del contratto darebbe vita alla mancata percezione dei canoni fino alla scadenza del rapporto non consentirebbe di configurare una reale deminutio patrimonii del creditore in ipotesi di bene già rientrato nella disponibilità del locatore. Il discorso potrebbe essere diverso solo in ipotesi di mancata immediata restituzione del bene oggetto del contratto.

Il punto cruciale consiste, dunque, nel comprendere se, effettivamente, il rilascio immediato e/o entro congruo termine dell’immobile sia sufficiente ad impedire l’esigenza di ristorare il locatore dal danno consistente nella mancata percezione del canone fino alla scadenza pattuita nel contratto.

Occorre, pertanto, tornare all’incipit dell’indagine svolta, chiarendo che non sussiste, in verità, azione di adempimento volta all’ottenimento dei canoni che si sarebbero percepiti fino alla naturale scadenza, poiché il fatto descritto assume le fattezze di un danno evento imputabile all’esperimento dell’azione di risoluzione.

Ai fini dell’ottenimento dei suindicati canoni, si è richiesto alla Corte di cassazione di esprimersi in ordine: a.) ai requisiti richiesti (ricostruzione della causalità giuridica, applicabilità dell’art. 1227 c.c. in ipotesi di mancata attivazione del locatore nel porre in essere tutti gli adempimenti necessari affinché si possa avere conoscenza della disponibilità del bene da locare; nesso di causalità materiale); b.) all’applicabilità dell’art. 1591 cc. ai fini risolutivi della questione giuridica oggetto di interesse.

Pur restando in attesa della risposta delle SS.UU, appare evidente come il locatore debba certamente dimostrare il danno evento, il danno conseguenza ed il nesso di causalità della propria pretesa risarcitoria, oltre alla insussistenza di una violazione del principio di autoresponsabilità ex art. 1227 cc.

In conclusione, appare evidente come, al di là della questione giuridica oggetto di dibattito, resti ferma l’applicabilità della differenza tra azione di adempimento ed azione di risoluzione, nonché dei principi espressi dall’art. 1453 cc. e dei requisiti di liquidazione del risarcimento del danno.

 

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TESTO SENTENZA

Rilevato che: con atto di citazione del 26 novembre 2011 Immobiliare Calipigia s.r.l., nella qualità  di proprietaria di immobile concesso in locazione al convenuto con termine di scadenza fissato al 31 ottobre 2011, convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma Stefano Benemeglio, chiedendo la condanna al pagamento della complessiva somma di Euro 29.948,32, oltre Euro 4.000,00 per ogni mese di ritardo nella conclusione di una nuova locazione, ed oltre le spese legali sopportate per le due procedure di convalida di sfratto e per la procedura esecutiva di rilascio, quantificate in complessivi Euro 8.000,00 oltre accessori.

Oltre il mancato pagamento di oneri condominiali, risultava una morosità per canoni non pagati, detratto il deposito cauzionale, per Euro 12.220,00, nonché il maggior danno ai sensi dell’art. 1591 cod. civ., quantificabile fino al febbraio in Euro 16.000,00, oltre Euro 4.000,00 mensili fino alla nuova locazione, per le concrete possibilità di locazione perse. Il Tribunale adito accolse la domanda nei limiti della condanna al pagamento della somma di Euro 4.000,00 oltre interessi dalla domanda, rigettandola per il resto. Proposto appello dalla società, con sentenza di data 12 novembre 2018 la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello.

Premise la corte territoriale che il Tribunale aveva correttamente rilevato che la società non aveva provato che il conduttore avesse impedito di far prendere visione dell’immobile ai potenziali conduttori, facendo perdere alla locatrice possibilità di locazione a causa del ritardo.

Osservò quindi che la domanda in primo grado era stata formulata in relazione al danno di cui all’art. 1591 cod. civ., mentre nell’atto di appello si era fatto riferimento al danno da inadempimento ai sensi dell’art. 1453 cod. civ. e che, «anche a voler ritenere ammissibile tale nuova prospettazione, ritenendo, comunque, che fosse stato inizialmente dedotto e non modificato il fatto costitutivo della pretesa», la domanda era infondata, sulla base di quanto affermato da Cass. n. 27614 del 2013 («In ipotesi di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenuto il rilascio del bene locato, la mancata percezione da parte del locatore dei canoni che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza convenzionale o legale del rapporto, ovvero fino al momento in cui il locatore stesso conceda ad altri il godimento del bene con una nuova locazione, non configura di per sé un danno da “perdita subita”, né un danno da “mancato guadagno”, non ravvisandosi in tale mancata percezione una diminuzione del patrimonio del creditore – locatore rispetto alla situazione nella quale egli si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento del conduttore, stante il carattere corrispettivo del canone rispetto alla privazione del godimento.

Un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può, invece, configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590 cod. civ.»).

Aggiunse che nessun danno risarcibile era configurabile per il periodo successivo a quando la locatrice aveva riottenuto la disponibilità dell’immobile, non risultando provato che la mancata nuova locazione fosse dipesa dal comportamento del conduttore, ovvero dalle condizioni in cui quest’ultimo aveva riconsegnato l’immobile, essendo piuttosto dipesa la mancata nuova locazione verosimilmente dalle mutate condizioni del mercato immobiliare.

Osservò ancora che non spettavano le spese relative alle procedure di sfratto e di rilascio perché il deposito della relativa documentazione non esonerava la parte dall’onere di specificazione della domanda in ordine alle spese e competenze professionali, essendo stato invece genericamente richiesto il rimborso della complessiva somma di Euro 8.000,00, senza l’esposizione delle attività svolte e senza la produzione di una qualche notula che consentisse di verificare l’esattezza della pretesa, né risultava prodotta alcuna fattura o ricevuta di pagamento in favore del difensore per l’attività svolta.

Precisò che non si trattava di effettuare la liquidazione delle spese in favore del difensore per l’attività svolta, ma di riconoscere il rimborso di spese sostenute per la procedura di convalida e di quella esecutiva. Aggiunse, infine, che correttamente il Tribunale (che per il resto aveva posto a carico del conduttore soccombente le spese del giudizio) aveva ritenuto di compensare le sole spese di mediazione ai sensi dell’art. 92 c.p.c., atteso che legittimamente il Benemeglio aveva rifiutato la proposta conciliativa, per lui più gravosa di quanto riconosciuto dalla sentenza.

Ha proposto ricorso per cassazione Immobiliare Calipigia s.r.l. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria da entrambe le parti. Con ordinanza interlocutoria n. 5051 del 17 febbraio 2023 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza in relazione alla questione posta con il primo motivo di ricorso. E’ stata nuovamente depositata memoria da entrambe le parti.

Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte. Considerato che: con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1453 e 1223 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la parte ricorrente, premesso che l’immobile era stato rilocato soltanto in data 3 ottobre 2012, che spetta il risarcimento perché, alla luce del principio di diritto enunciato da Cass. n. 2865 del 2015, il canone non è il compenso per la privazione del godimento diretto, ma è la rendita che si ricava dalla locazione dell’immobile. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 664 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ..

Osserva la parte ricorrente che, una volta depositata la documentazione processuale, il giudice deve liquidare le spese dei procedimenti di intimazione di sfratto, le quali, oltre ad essere liquidate con il decreto ingiuntivo di cui all’art. 664, possono chieste con un giudizio ordinario (Cass. n. 9987 del 1994). Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.

. Osserva la parte ricorrente che illegittimamente è stata disposta la compensazione delle spese relative al procedimento di mediazione perché, trattandosi di esborsi e non di onorari, esse non erano suscettibili di compensazione, ma solo di essere escluse in quanto eccessive o inutili (art. 92, comma 1), per cui dovevano essere poste a carico della parte soccombente. In relazione alla questione posta dal primo motivo, va disposta la rimessione del ricorso alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Convivono nella giurisprudenza di questa Corte, e segnatamente di questa sezione, due orientamenti. Secondo un primo orientamento, più risalente e tendenzialmente prevalente, il locatore, che abbia chiesto ed ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore, ed il cui ammontare è riservato alla valutazione del giudice di merito sulla base di tutte le circostanze del caso concreto (Cass. n. 194 del 2023; n. 8482 del 2020; n. 2865 del 2015; n. 10677 del 2008; n. 18510 del 2007; n. 676 del 1980; n. 1880 del 1970).

Secondo altro orientamento, recepito dalla sentenza di merito, in ipotesi di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenuto il rilascio del bene locato, la mancata percezione da parte del locatore dei canoni che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza convenzionale o legale del rapporto, ovvero fino al momento in cui il locatore stesso conceda ad altri il godimento del bene con una nuova locazione, non configura di per sé un danno da “perdita subita”, né un danno da “mancato guadagno”, non ravvisandosi in tale mancata percezione una diminuzione del patrimonio del creditore – locatore rispetto alla situazione nella quale egli si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento del conduttore, stante il carattere corrispettivo del canone rispetto alla privazione del godimento, mentre un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può, invece, configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590 cod. civ. (Cass. n. 1426 del 2017; n. 27614 del 2013).

Il punto di divergenza fra i due orientamenti risiede nelle conseguenze che vengono ricollegate alla valutazione in termini di godimento indiretto della locazione.

Per l’indirizzo recepito dalla corte territoriale non c’è pregiudizio, con riferimento ai canoni che, dopo il rilascio, sarebbero stati esigibili fino alla scadenza del contratto, se il godimento torna al proprietario locatore in seguito al rilascio all’esito della risoluzione per inadempimento, posto che il canone è il corrispettivo per la privazione del godimento. Per il primo indirizzo, invece, il rilascio dell’immobile non neutralizza il danno del mancato conseguimento del canone fino alla scadenza del rapporto contrattuale.

Afferma in particolare Cass. n. 8482 del 2020 che «il danno da risarcire non può non ritenersi rappresentato dall’ammontare dei canoni dovuti per la durata ulteriore della locazione ormai sciolta per inadempimento, senza che si possa prendere in considerazione la ripresa disponibilità della cosa, perché questa, finché non viene locata di nuovo, per il soggetto che aveva scelto di ricavare dal bene un reddito locatizio, non può rappresentare — o quanto meno non può a priori presumersi rappresenti — un effettivo e reale vantaggio a quello paragonabile».

Alla luce di tale indirizzo, l’interesse protetto dal contratto di locazione, e che è stato leso dall’inadempimento, è lo specifico interesse al godimento indiretto mediante la percezione di un corrispettivo per l’altrui godimento, che il proprietario, in base all’esercizio di autonomia che gli compete, ha affidato alla tutela contrattuale, per cui l’inadempimento avrebbe violato il programma di godimento del bene prefigurato dal negozio.

Quest’ultimo indirizzo si è evoluto, fino alle più recenti manifestazioni, nel senso che il danno risarcibile non corrisponde ut sic alla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore, ma è necessario l’apprezzamento da parte del giudice del merito di tutte le circostanze del caso concreto. Si tratta di precisazione quanto mai opportuna, in primo luogo perché l’azione risarcitoria non può essere confusa con l’azione di adempimento, solo grazie alla quale, per ipotesi, il locatore può esigere il mancato pagamento dei canoni convenuti fino alla scadenza del rapporto.

In secondo luogo, tale esito evolutivo è coerente alla distinzione fra il danno evento ed il danno conseguenza. Il danno evento, coincidente con l’inadempimento, si identifica effettivamente con la mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore. Il danno risarcibile è, però, il danno conseguenza, disciplinato dall’art. 1223 cod. civ.. Emerge, a questo proposito, l’onere probatorio del locatore, che deve provare il nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le conseguenze pregiudizievoli.

E’ parte di tale onere probatorio del locatore l’essersi attivato per rendere conoscibile con i mezzi ordinari la disponibilità dell’immobile per una nuova locazione. In questo quadro, potrà essere rilevante anche quanto il conduttore possa opporre ai sensi dell’art. 1227, comma 2, cod. civ. Di contro al primo indirizzo, pur apprezzato in questo esito evolutivo, che distingue fra danno evento e danno conseguenza, deve valutarsi, ai fini della risoluzione del contrasto, la portata dell’art. 1591 cod. civ.

E’ pur vero che tale norma disciplina la fattispecie dei danni da ritardata restituzione, e dunque gli effetti della mora del conduttore a restituire l’immobile, ma è anche vero che la portata della norma non è riducibile alla fattispecie della restituzione dopo la scadenza del rapporto, potendo essa sul piano pratico trovare applicazione anche al caso della restituzione prima della scadenza, e dunque all’ipotesi della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore e del protrarsi del godimento della cosa da parte di quest’ultimo, nonostante la cessazione per risoluzione.

Il conduttore è tenuto in base all’art. 1591 a corrispondere, a titolo risarcitorio, il canone convenuto fino alla restituzione. Resta tuttavia il margine, come è noto salvaguardato dalla norma, del «maggior danno».

Volendo rileggere la fattispecie sulla base del punto di vista dell’art. 1591, l’interrogativo da porsi è se in tale «maggior danno», una volta imposto al conduttore dalla legge l’obbligo di risarcire il locatore mediante la corresponsione del canone fino alla restituzione, trovi ospitalità, ed in quali termini, il danno conseguente, ai sensi dell’art. 1223, all’evento dannoso rappresentato dalla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore, si intende all’interno al termine di scadenza del rapporto.

Ritiene il Collegio che lo scioglimento di questi nodi, ai fini della risoluzione del contrasto, spetti alle Sezioni Unite.

Tanto anche in considerazione della circostanza che con riferimento alla fattispecie viene in rilievo una nozione generale del diritto dei contratti nei rapporti che si protraggono nel tempo (contratti ad esecuzione continuata, contratti di durata), quella che si esprime con il concetto del c.d. interesse positivo al perdurare del regolamento contrattuale fino alla scadenza.

P. Q. M.

Rimette il ricorso alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Così deciso in Roma il giorno 4 ottobre 2023 nella camera di consiglio della Terza sezione civile.

 

A cura di Micaela Lopinto,

Dottoressa (Avv.) in Milano