Avviso di accertamento notificato dopo l’estinzione della società: trasmissibilità, seppur entro determinati limiti, in capo ai soci per quanto concerne le imposte ed intrasmissibilità ai medesimi delle sanzioni amministrative

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Abstract: L’avviso di accertamento notificato a società estinta determina una netta scissione tra le sorti che concernono le violazioni di norme tributarie ivi contestate e quelle che riguardano invece le sanzioni amministrative ad esse connesse. Trattasi di una tematica molto complessa – affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30011 del 13 ottobre 2022 e seguita da recenti e ulteriori pronunce conformi – la quale prima di essere analizzata nello specifico merita un doveroso inquadramento giuridico-normativo, per poi passare alla soluzione fornita dalla giurisprudenza di legittimità ed infine a brevi considerazioni conclusive sull’intera fattispecie.

  1. Liquidazione, estinzione e cancellazione delle società: breve analisi e descrizione del contesto giuridico-normativo vigente e responsabilità di liquidatori, soci ed amministratori per debiti civili e tributari 2. Il trattamento giuridico riservato alle sanzioni amministrative connesse a violazioni di norme tributarie alla luce della sentenza n. 30011/2022 della Corte di Cassazione e successive conformi 3. Eventuali profili di abuso e/o elusione del diritto e considerazioni conclusive. 
  1. La cancellazione della società dal registro delle imprese comporta l’estinzione della medesima ma allo stesso tempo implica la frequente necessità di affrontare e gestire tutta una serie di problematiche connesse ad eventuali situazioni debitorie pendenti non ancora compiutamente definite o addirittura sopravvenute in quanto non prevedute e/o prevedibili al momento della cessazione dell’attività aziendale.

La responsabilità patrimoniale dei soci verso i creditori sociali deve intendersi solidale ai sensi dell’art. 2495 c.c. comma 2° in virtù del quale la cancellazione di una società, sia di capitali che di persone, determina una sorta di efficacia costitutiva (Cfr. Corte di Cassazione Sezioni Unite, sentenza n. 4062/2010) – ovvero produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società stessa – con un conseguente fenomeno successorio in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo ad essa non si estinguono ma si trasferiscono automaticamente in capo ai soci: questi ultimi ne risponderanno pertanto nei limiti di quanto percepito a seguito della liquidazione o illimitatamente – a seconda che in pendenza dell’esistenza della società essi avessero responsabilità limitata o illimitata per quanto concerne i debiti sociali – ed inoltre subentreranno altresì nella legittimazione processuale facente capo alla società “in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale” (Cfr. Corte di Cassazione, ordinanza n. 10678/2022; Corte di Cassazione, sentenza n. 16362/2020; Corte di Cassazione Sezioni Unite, sentenza n. 6070/2013).

Per quanto concerne invece nello specifico l’ambito tributario la cancellazione dal registro delle imprese impedisce alla società di essere destinataria di atti impositivi, riscossivi e/o sanzionatori poiché giuridicamente inesistente (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 28187/2013) – con conseguente trasmigrazione della responsabilità per l’imposta eventualmente inadempiuta in capo ai liquidatori e/o ai soci secondo il dictum dell’art. 2495 c.c. sopra menzionato – pertanto la necessità di rafforzare in maniera specifica la tutela del credito erariale ha indotto il nostro legislatore ad introdurre una norma ad esclusivo vantaggio del Fisco a fronte delle possibili lungaggini degli organi di controllo, ovvero l’articolo 28, comma 4, D. Lgs. n. 175/2014 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) in virtù del quale ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.

In sostanza alla luce del predetto disposto normativo ed esclusivamente a fini fiscali – e dunque non civilistici – gli effetti estintivi della società rimangono espressamente sospesi per un periodo di cinque anni, con la conseguenza che medio tempore l’Amministrazione finanziaria può continuare la propria attività di accertamento e connesse notifiche come se la cancellazione non fosse mai avvenuta.

Subito dopo l’entrata in vigore della predetta norma si è posto il problema del suo coordinamento logico oltre che giuridico con l’art. 2495, comma 2°, c.c. interrogando sul punto dottrina, giurisprudenza e prassi amministrativo-finanziaria: in sostanza ci si è chiesti se il fenomeno successorio a seguito della cancellazione dal registro delle imprese – in virtù del quale, come visto, i rapporti obbligatori facenti capo alla società trasmigrano in capo ai soci a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui sono soggetti pendente societate – viene derogato retroattivamente o meno alla luce del differimento quinquennale degli effetti estintivi ex art. 2495, comma 2°, c.c. previsti dal menzionato art. 28 del Decreto semplificazioni.

La risposta al quesito è pervenuta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 6743/2015 la quale ha pacificamente escluso la retroattività della disposizione di cui all’art. 28 poiché ritenuta norma di natura sostanziale e non procedurale sulla capacità della società cancellata dal registro delle imprese e dunque priva di efficacia retroattiva (Cfr. anche Corte di Cassazione, ordinanza n. 4536/2020), con la conseguenza che la fictio iuris della sopravvivenza fiscale quinquennale trova applicazione solo quando la richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese sia avvenuta dopo il 13 dicembre 2014, ovvero dopo l’entrata in vigore dell’art. 28 D. Lgs. n. 175/2014, e gli avvisi di accertamento notificati a società volontariamente cancellatasi prima di tale data saranno di conseguenza invalidi (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 32180/2022).

Per completezza espositiva è doveroso inoltre evidenziare che il predetto art. 28, oltre a disciplinare gli effetti fiscali conseguenti all’estinzione delle società, è altresì intervenuto a modifica dell’art. 36 D.P.R. n. 602/1973 – in tema di responsabilità ed obblighi di liquidatori, amministratori e soci – il quale nella formulazione attualmente vigente prevede sostanzialmente al comma 1° che l’attività di liquidazione debba seguire un preciso iter di graduazione dei crediti mirante in primis a saldare i debiti verso il Fisco – il quale viene postergato solo dinanzi a crediti di ordine superiore a quelli tributari – e solo successivamente è possibile provvedere alla assegnazione dei residui beni aziendali a soci ed associati, posto che in caso contrario sussisterà una responsabilità personale di liquidatori ed amministratori “commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.

L’articolo 36 prosegue poi sancendo ai commi successivi che qualora soci ed associati abbiano ricevuto beni sociali in assegnazione dagli amministratori o dai liquidatori in pendenza di un credito erariale non soddisfatto rispettivamente nel corso degli ultimi due periodi di imposta antecedenti la messa in liquidazione o durante il tempo della liquidazione, i medesimi sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma parametrata al valore dei beni predetti sociali ricevuti che si presume, salva prova contraria, proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio o associato (Cfr. circolare Agenzia delle Entrate n. 31/E/2014, paragrafo 2), con l’ulteriore conseguenza che sarà consentito al Fisco agire in via sussidiaria verso i soci “pro quota” e tale responsabilità sarà sempre dipendente da quella del liquidatore e dell’amministratore, nel senso che, per escutere i primi, è comunque necessaria che sussistano anche i presupposti per la responsabilità dei secondi (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 14570/2021).

Per quanto concerne infatti la responsabilità dei liquidatori, degli amministratori e dei soci di società in liquidazione ex art. 36 del d.P.R. n. 602/1973, è importante sottolineare che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha delineato una ricostruzione sostanzialmente unitaria di tali fattispecie (Cfr. Ex Multis: Corte di Cassazione, sentenza n. 14570/2021; Corte di Cassazione sentenza n. 31904/2021; Corte di Cassazione, sentenza n. 28401/2020) ritenendo che si tratti di responsabilità per fatto proprio ex lege (per gli organi, in base agli articoli 1176 e 1218 c.c., e per i soci di natura sussidiaria) avente natura civilistica e non tributaria “non ponendo la predetta norma alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti, nemmeno allorché la società sia cancellata dal registro delle imprese” (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 30481/2022; Corte di Cassazione, sentenza n. 15377/2020; Corte di Cassazione, sentenza n. 7327/2012; Corte di Cassazione sentenza n. 29969/2019; Corte di Cassazione, sentenza n. 17020/2019).

Tale responsabilità – sostiene la Suprema Corte – non è pertanto equiparabile all’obbligazione derivante dalla responsabilità verso i creditori (ex art. 2394 c.c. ed ex art. 2495 c.c.) né è sovrapponibile, in quanto fondata su norma speciale, alla responsabilità dei liquidatori ai sensi dell’art. 2489 c.c. ed alla responsabilità diretta per danni provocati dagli amministratori nei confronti del socio o del terzo ex art. 2395 c.c. (Cfr. ancora Corte di Corte di Cassazione, sentenza n. 30481/2022).

Da ultimo è importante evidenziare che il predetto articolo art. 36 riguarda solo i debiti IRES e relativi interessi, con esclusione dunque dei debiti IVA ed IRAP (e relativi interessi): ove non sussistono dunque i presupposti per le menzionate responsabilità trova quindi applicazione l’art. 2495 c.c. e pertanto i soci saranno responsabili nel limite di quanto hanno ricevuto in base al bilancio finale di liquidazione, mentre i liquidatori saranno responsabili solo in caso di omissione colpevole del pagamento. Anche in tal caso però vale quanto specificato dalla giurisprudenza sopra menzionata, ovvero non si verifica alcuna successione nel debito e quindi una volta cancellata la società la responsabilità di soci e liquidatori non è automatica, posto che l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare la sussistenza delle condizioni ex lege previste affinché i soci o i liquidatori possano ritenersi responsabili.

Il recupero dei crediti a titolo di interessi invece, a qualunque delle imposte fin qui nominate, seguirà ovviamente di pari passo le regole descritte per il recupero del debito principale.

  1. Se, come visto al precedente paragrafo, è principio consolidato quello secondo cui l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio – nei limiti e alle condizioni sopra descritte – a seguito del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono ma si trasferiscono in capo ai soci, diverse conclusioni vanno invece raggiunte in merito alle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie.

Queste ultime infatti sono disciplinate dal D. Lgs. n. 472/1997 i cui artt. 7 e 8 prevedono l’intrasmissibilità delle stesse agli eredi in perfetta armonia con il principio di ispirazione penalistica della responsabilità personale del trasgressore.

In particolare il successivo art. 11 sancisce ai commi 1° e 2° sancisce che “1. Nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti. Se la violazione non è commessa con dolo o colpa grave, la sanzione, determinata anche in esito all’applicazione delle previsioni degli articoli 7, comma 3, e 12, non può essere eseguita nei confronti dell’autore, che non ne abbia tratto diretto vantaggio, in somma eccedente euro 50.000, salvo quanto disposto dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, e salva, per l’intero, la responsabilità prevista a carico della persona fisica, della società, dell’associazione o dell’ente. L’importo può essere adeguato ai sensi dell’articolo 2, comma 4. 2. Fino a prova contraria, si presume autore della violazione chi ha sottoscritto ovvero compiuto gli atti illegittimi”.

In sostanza dunque in caso di violazione incidente sulla determinazione o sul pagamento del tributo, l’ente collettivo è responsabile di tale violazione in solido con l’autore materiale di essa.

Va anche evidenziato che la disciplina è stata ulteriormente innovata dal D.L. 30 settembre 2003 n. 269 (convertito con Legge 24 novembre 2003 n. 326, in vigore dal 2 ottobre 2003), ma anche volendo prescindere da tale novella, già con riferimento alle regole dettate dall’art. 11 del D.lg. n. 472 del 1997 sopra menzionato occorreva comunque verificare la corretta applicazione della sanzione al caso concreto e soprattutto l’effettivo “autore materiale” della stessa, posto che persino il ruolo di vertice rivestito nell’organizzazione sociale non comportava – e non comporta – il sistematico riconoscimento di responsabilità sanzionabile in capo al medesimo soggetto per violazioni incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo.

Infatti se da un lato non può negarsi che le funzioni e i poteri gestionali attribuiti all’amministratore delegato possano indurre ad ipotizzare che quest’ultimo sia più facilmente nelle condizioni di porre in essere condotte illegittime, dall’altro i principi di “personalizzazione della sanzione” basata sulle condizioni soggettive del trasgressore – introdotti dal d.lgs. n. 472 del 1997 e confermati dalla prevalente dottrina e giurisprudenza – impongono di escludere che vi sia una automatica corrispondenza tra le stesse condotte e la funzione in sé rivestita dall’amministratore medesimo.

Ne discende pertanto che se è vero che una volta identificati i poteri dell’amministratore delegato di una società – o più in generale degli organi di vertice – può scattare la presunzione ex art. 11, comma 2° d.lgs. n. 472/1997 sopra menzionato, è altresì vero che l’Agenzia delle entrate deve approfondire le indagini e dimostrare con adeguata motivazione quali sarebbero nello specifico i loro poteri ed attività nell’espletamento dei quali possa desumersi (o presumersi) il compimento di atti illegittimi e/o di responsabilità omissive, posto che in assenza di ciò – proprio a tutela del sopra citato principio di personalizzazione della sanzione –  “la riconducibilità della responsabilità in capo all’amministratore della società, in quanto tale, avvalorerebbe un inaccettabile principio di responsabilità oggettiva, contrastante con la norma” (Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 5164/2021).

Tali principi valgono ancor di più se rapportati alla posizione dei meri soci che – caso frequente – non assumono in seno alla società alcuna posizione di responsabilità.

Ne discende pertanto che, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione e in particolare con la sentenza n. 30011/2022, l’estinzione della società prima della notifica dell’avviso d’accertamento perfeziona un fenomeno successorio nei riguardi dei soci – in base ai principi esposti ed analizzati al paragrafo precedente – solo per quanto concerne le imposte, non invece per quanto concerne le eventuali sanzioni amministrative.

 

  1. Arrivati a questo punto del discorso e chiariti i concetti fondamentali viene spontaneo domandarsi se tale orientamento giurisprudenziale possa o meno prestarsi ad interpretazioni e soprattutto ad applicazioni concretamente abusive e/o elusive.

In sostanza, se forti di tali principi e consapevoli della sussistenza di consistenti debiti tributari pendenti – e dunque della sicura applicazione anche delle connesse sanzioni in caso di accertamento fiscale che si prospetta ormai imminente – si procedesse a studiare a tavolino e ad elaborare strategie economico-aziendali implicanti di fatto la necessità di procedere in primis alla estinzione della società in questione come passaggio intermedio e di mera convenienza in vista di successivi progetti imprenditoriali alternativi?

Ebbene il rischio è alquanto concreto e si darebbe certamente adito ad un “risparmio” per il socio/contribuente alla luce dell’orientamento giurisprudenziale analizzato a fronte – nonché a discapito – di una evidente perdita di entrate per il fisco qualora le sanzioni amministrative risultino essere appunto di importo ingente.

La tematica non è dunque di poco conto, posto che si tratta di capire se in tali circostanze si è di fronte ad un legittimo risparmio di imposta frutto del diritto di ciascun contribuente di pianificare la propria attività nel modo che ritiene più conveniente possibile o se invece vi sia il rischio di sconfinare negli angusti e soprattutto discussi meandri dell’abuso e/o dell’elusione del diritto o addirittura in ambito penalistico.

Innanzitutto bisogna capire che cosa si intende per fenomeni abusivi ed elusivi, anche se ormai dopo la nuova formulazione dell’art. 10-bis del c.d. Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212/2000) ad opera del D. Lgs. n. 128/2015 si tende a parlare unitariamente di tali concetti.

Infatti dopo la predetta riforma il novellato art. 10-bis della Legge n. 212/2000 (rubricato appunto “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”) unifica le due nozioni in un’unica definizione di cui al comma 1° ove si legge che “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

Significativi sono però gli ultimi due commi del predetto articolo: il comma 12° a mente del quale “in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” e il successivo comma 13° il quale prevede che le operazioni abusive e/o elusive così come sopra definite “non danno più luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta comunque ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.

Chiarito quanto precede si può dunque procedere ad analizzare nello specifico il quesito posto ad inizio del presente paragrafo, ovvero se l’intrasmissibilità ai soci delle sanzioni amministrative connesse a violazioni tributarie in caso di avviso di accertamento notificato dopo l’estinzione della società – intrasmissibilità come visto confermata dalla Suprema Corte di Cassazione – possa dare la stura a fenomeni di estinzione preordinate a tavolino allo scopo di conseguire nei limiti del possibile risparmi di imposta e/o vantaggi fiscali e se tutto questo rappresenti una legittima pianificazione da doversi riconosce al contribuente o se invece possa integrare gli estremi di un fenomeno abusivo e/o elusivo ai sensi del menzionato art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente o una insolvenza fraudolenta ex art 11 del D. Lgs. n. 74/2000.

A modesto parere di chi scrive e alla luce del quadro normativo vigente i dubbi sono infatti legittimi e la risposta è tutt’altro che semplice, sia in considerazione delle diverse operazioni economico-aziendali – che a livello di pianificazione strategica possono essere poste in essere in attuazione di logiche e progetti imprenditoriali – sia in considerazione del delicato e problematico rapporto con il predetto art. 11 del D. Lgs. n. 74/2000 che invece punisce penalmente nello specifico il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto (nonché di interessi e/o sanzioni amministrative relativi a dette imposte), ponendosi in rapporto di specialità rispetto alla fattispecie penale generale di cui all’art. 641 c.p. il quale invece punisce chiunque, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito effettivo e concreto di non adempierla.

Secondo buona parte di dottrina e giurisprudenza la fattispecie speciale di insolvenza fraudolenta ex art. 11 D. Lgs. n. 74/2000 si differenzia dall’abuso del diritto poiché necessita della sussistenza dell’intento fraudolento, ovvero del dolo specifico consistente nel fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e di interessi o sanzioni relativi a tali imposte – a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa erariale (Cfr. Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 19989/2000) – mediante vendite simulate e/o altri atti fraudolenti su beni propri o altrui (condotte di cui al 1° comma) o nel fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori mediante l’indicazione nella documentazione fiscale di attività e/o passività non corrispondenti alla realtà effettiva (condotte di cui al 2° comma), unitamente alla coscienza e volontà del fatto tipico.

Tale reato non è configurabile quando la simulazione o l’attività fraudolenta sono finalizzate a sottrarsi al pagamento di debiti diversi da quelli relativi alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto o ad interessi o sanzioni relativi a dette imposte: il dolo specifico presuppone la sussistenza di una pretesa creditoria da parte dell’Erario e l’azione tipica posta in essere dall’agente deve essere orientata verso il conseguimento di quel fine – che evidentemente non è perseguibile ove manchi un debito erariale –  con la conseguenza che già questo può essere un utile elemento di discrimine rispetto alla fattispecie dell’abuso del diritto oltre che con la fattispecie di penale generale ex art. 641 c.p..

Oltre a ciò va altresì evidenziato che in presenza di un effettivo decremento patrimoniale a seguito del quale il contribuente risulti concretamente spogliatosi dei propri beni senza mantenere sui medesimi alcun potere dispositivo occulto e/o schermato dovrebbe escludersi in toto la sussistenza della fattispecie penale tipica ex art. 11 D. Lgs. n. 74/2000 e solo ricorrendone tutti i presupposti ex art. 10-bis Legge 212/2000 sopra indicati potrebbe parlarsi eventualmente di abuso e/o elusione del diritto.

Infatti per “atto fraudolento” deve intendersi qualsiasi atto che – non diversamente dalla alienazione simulata – sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà non corrispondente al vero al fine ultimo di pregiudicare la riscossione del credito erariale depauperando in modo artificioso e fittizio la garanzia patrimoniale: in sintesi la giurisprudenza riconosce la sussistenza della condotta tipica laddove il contribuente riduca fittiziamente la garanzia generica offerta dai propri o altrui beni ex art. 2740 c.c. – a prescindere sia dalla manifestazione formale di una pretesa da parte dell’Amministrazione finanziaria e altresì dall’avvio di una procedura di riscossione coattiva – connotando in tal modo di offensività l’agere criminoso.

Significativa sul punto è la Corte di legittimità secondo la quale “il reato previsto dall’art. 11 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è integrato dall’uso di mezzi fraudolenti per occultare i propri o altrui beni al fine di sottrarsi al pagamento del debito tributario, delle sanzioni e relativi interessi e non presuppone come necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione coattiva, essendo, invece, sufficiente l’idoneità, con giudizio ex ante, a rendere in tutto o in parte inefficace l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria” (Cfr. Corte di Cassazione, Sez. III penale, sent. 27 febbraio 2014, n. 22910).

Quid iuris, come punire chi si pone nella condizione di poter sfruttare l’intrasmissibilità delle sanzioni amministrative alla luce dell’orientamento giurisprudenziale fatto proprio dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento n. 30011/2022 (e successive conformi)? Allo stato di fatto in considerazione di quanto sopra esposto non esiste una risposta univoca semplice e lineare, posto che a seconda di come si “destreggia” il soggetto nel caso concreto con il suo modus operandi finalisticamente orientato a soddisfare le proprie esigenze imprenditoriali può configurarsi l’una o l’altra fattispecie esaminata o addirittura nessuna delle medesime, dovendosi riconoscere anche la sussistenza di una c.d. “zona bianca” di piena libertà di ogni cittadino di pianificare la propria attività economica come meglio quest’ultimo ritiene opportuno.

Trattandosi di questione molto complessa l’auspicio per il futuro è che i Giudici – sia di legittimità che di merito – riescano di volta in volta a trovare il giusto equilibrio e contemperamento in un “terreno mobile e fragile” come quello descritto in cui basta poco per sprofondare nei meandri dell’abuso e dell’elusione fiscale o del penalmente rilevante, con tutto ciò che ne consegue per quanto concerne eventuali recuperi di imposta, sanzioni e tante volte anche a livello civilistico, posto che le fattispecie descritte (penali e non) possono coinvolgere (anche contemporaneamente) diverse questioni di rilevanza non solo tributaria ma anche civilistica.

Avv. Antonella Florio
Foro di Milano

www.avvocatoantonellaflorio.it

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